"L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari". (Antonio Gramsci)

sabato 27 aprile 2013

Lavoratori schiacciati dalle pensioni (altrui) - prima puntata

Come ho cercato di condividere qui e qui, il fatto che il paese si ritrovi oggi a vivere "al di sopra delle proprie possibilità", gravato dal debito accumulato verso l'estero, non dipende tanto dal livello della spesa interna e neppure dall'entità, in sè, della quota intermediata dallo Stato, il cui ruolo è anzi è essenziale per riuscire a coordinare le risorse di un paese e focalizzarle su obiettivi di rilevanza strategica.

Il nodo vero è un altro, e chiama in causa la destinazione della spesa: in uno scenario in cui nuovi paesi emergenti si sono affacciati sul mercato mondiale per reclamare quote crescenti di lavoro e reddito, una parte troppo esigua è stata investita per rinnovare i fattori competitivi del nostro paese ed il suo modello di sviluppo.

Per troppo tempo, infatti, la Politica ha gestito la spesa pubblica e l'imposizione fiscale quale strumento per contendersi il consenso nell'immediato, non disdeganando di farsi tirare la giacchetta da gruppi di interesse e categorie di ogni sorta.

Le pensioni rappresentano il capitolo più importante della spesa pubblica e l'esempio più eclatante del suo appiattimento su interessi particolari declinati al tempo presente. Per rendersene conto è sufficiente leggere il Rapporto sul sistema pensionistico obbligatorio elaborato dal Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale costituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Il Rapporto analizza gli andamenti finanziari 1989-2010 relativi alle pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti (IVS). Queste pensioni hanno come presupposto la costituzione in tempi precedenti di una posizione contributiva collegata all’attività lavorativa svolta dal beneficiario. L'erogazione avviene al raggiungimento di determinati limiti di età o di anzianità contributiva (pensioni di vecchiaia e anzianità), oppure per una sopravvenuta incapacità a svolgere l'attività lavorativa (assegni di invalidità e pensioni di inabilità). In caso di morte del beneficiario tali prestazioni possono essere corrisposte ai familiari superstiti.
 
Nell'aggregato non sono ricomprese le pensioni di natura puramente assistenziale, erogate a soggetti in situazione di bisogno a prescindere dal versamento di contributi (pensioni di invalidità civile e indennità di accompagnamento, assegni e pensioni sociali, pensioni di guerra).

Nel 2010 le pensioni IVS sono ammontate a 232 miliardi, erogati a 16,7 milioni di percettori. Si tratta della prima voce di spesa delle Amministrazioni pubbliche, corrispondente al 34,6% dell'intera spesa corrente al netto degli interessi passivi.
 
Da dove arrivano i soldi per pagare le pensioni?
 
Il nostro sistema pensionistico è del tipo "a ripartizione": in ogni periodo i contributi versati da lavoratori e imprese sono destinati al finanziamento delle prestazioni erogate a favore dei lavoratori più anziani loro contemporanei.

La differenza tra le pensioni erogate ed i contributi effettivamente versati viene pagata dallo Stato, attingendo alle entrate fiscali.
 
Da un punto di vista contabile, questi trasferimenti statali sono classificati in due voci:
  1. La prima voce è la copertura del deficit delle gestioni previdenziali tenute presso l'INPS e gli altri Enti previdenziali.
    Il deficit si è andato riducendo a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, per effetto sia della crescita delle aliquote contributive, sia delle riforme che hanno rallentato la dinamica della spesa (posticipo dell'accesso, revisione delle modalità di calcolo e di rivalutazione). Si è quasi azzerato nel 2008, per poi tornare a crescere a causa della crisi e della conseguente riduzione delle entrate contributive. Nel 2010 il deficit è stato di 13 miliardi.
     
  2. La seconda voce è costituita dai trasferimenti GIAS (Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali), che vengono computati dagli Enti previdenziali come "contributi", al pari di quelli versati da lavoratori e imprese (la scarsa trasparenza nella contabilizzazione dei fondi GIAS è stata ripetutamente evidenziata dalla Corte dei Conti).
    All'interno di questo aggregato, la quota utilizzata per gli interventi di natura dichiaratamente assistenziale (le integrazioni delle pensioni al trattamento minimo, le maggiorazioni sociali, i prepensionamenti, ...) è in realtà minoritaria.
    Il grosso dei trasferimenti GIAS non è altro che un "puntello" istituzionalizzato posto a sostegno di una spesa previdenziale strutturalmente in deficit. Vi rientrano ad esempio:
    - il finanziamento di quota parte di tutte le gestioni pensionistiche, pari nel 2010 a 22,5 miliardi (vedi Legge finanziaria 2010) e che viene incrementato anno dopo anno in base al tasso di inflazione al consumo maggiorato di un punto percentuale;
    - i trasferimenti al fondo speciale dei ferrovieri, pari nel 2010 a 4 miliardi.
    Solo questi due capitoli rappresentano il 78% dei trasferimenti GIAS del 2010 (33,7 miliardi).

Da quanto illustrato, nel 2010 la spesa pensionistica non coperta dai contributi e posta a carico della fiscalità generale è stata di almeno 40 miliardi (13 di deficit "conclamato" e oltre 26,5 miliardi di trasferimenti statali GIAS di natura non assistenziale).

E se si guarda all'intero periodo 1989 - 2010 coperto dal Rapporto?

Il deficit cumulato delle gestioni previdenziali è ammontato a 260 miliardi. Mentre la quota di trasferimenti GIAS utilizzata per tappare il buco della previdenza (stimata al 75%) è ammontata a 400 miliardi. Complessivamete nel periodo 1989-2010 il finanziamento della previdenza ha assorbito entrate fiscali per un ammontare complessivo di 660 miliardi (capitalizzando tali somme in base al tasso di interesse medio sul debito pubblico, si otterrebbe un valore attualizzato superiore ai 1.000 milardi, pari a oltre la metà del nostro debito pubblico).

Visto da altra angolatura, nel periodo 1989-1995 i contributi versati annualmente sono stati l'8-9% del Pil ed hanno coperto in media il 75% della spesa pensionistica di natura non assistenziale. Successivamente la percentuale di copertura si è gradualmente innalzata: nel periodo 1996-2000 i contributi versati sono risultati intorno al 10% del Pil e la copertura delle pensioni è stata mediamente del 79%; mentre nel decennio 2001-2010 i contributi sono arrivati quasi a toccare il 12% del Pil con una copertura della spesa dell' 84% (nel 2008 si è raggiunta il livello massimo dell' 89% per poi arretrare in anni più recenti).

Come accennato, l'incremento della quota finanziata dai contributi è stato reso possibile, oltre che dall'inasprimento delle aliquote contributive, anche dal rallentamenteo della dinamica della spesa imposto delle varie riforme che si sono succedute a partire da quella di Amato del 1992.
Per dare un'idea: fino al 1995 si poteva andare in pensione con 35 anni di contributi (ma fino al 1992 ne bastavano 20 per i dipendenti pubblici uomini e addirittura 15 per le donne!). Oggi invece servono oltre 42 anni di contributi!

Ciò premesso proviamo a condividere qualche prima considerazione.

Le pensioni rappresentano un trasferimento di reddito che la popolazione in età lavorativa effettua a favore di quella più anziana con ridotte capacità di lavoro, nell'attesa che le nuovi classi di lavoratori faranno altrettanto nei loro confronti. Si tratta indubbiamente di un presidio di civiltà.

Storicamente, le pensioni erogate sono state superiori ai contributi versati ed una quota non trascurabile è stata finanziata dalla fiscalità generale.
 
Pertanto non si può parlare di una gestione puramente assicurativa, in cui le prestazioni pensionistiche ricevute dai percettori corrispondono in toto ad un diritto maturato sulla base dei contributi effettivamente versati.
 
Una quota delle pensioni viene infatti erogata sulla base della scelta, tutta politica, di destinare a tale fine (e non ad altri) una parte non marginale delle entrate fiscali raccolte.
 
Sempre a tale discrezionalità "politica" devono essere ricondotte anche le profonde differenze (ingiustizie?) nella generosità dei trattamenti pensionistici riservati alle diverse classi di lavoratori-contribuenti:
  • Come si è osservato, nel corso del tempo i lavoratori hanno pagato contributi sempre più elevati per andare in pensione sempre più tardi. I lavoratori di ieri - oggi pensionati risultano dunque favoriti rispetto ai lavoratori di oggi.
  • Il deficit previdenziale è stato sospinto in particolare dagli squilibri strutturali di alcune categorie: dipendenti pubblici, coltivatori diretti, artigiani, ...
Il punto è che si deve sgombrare il campo dall'idea che le pensioni oggi erogate corripondano in toto ad un "diritto acquisito". Questa idea non trova fondamento "assicurativo" nel monte contributi effettivamente versati, e non dovrebbe averlo neppure a livello "politico": come si può, infatti, parlare di diritti acquisiti dai pensionati, se gli stessi sono sistematicamente negati ai lavoratori che gli stanno pagando la pensione!  

Una volta arrivati a questa constatazione, si può iniziare a ragionare con serenità sulla valenza in termini di effettiva equità redistributiva, della scelta di destinare una così ingente mole di risorse pubbliche verso questa fascia di popolazione, nonchè sull'opportunità di riorientarla su altri obiettivi più proiettati al futuro del Paese (ad esempio: l'istruzione, la ricerca, l'innovazione e l'internazionalizzazione delle imprese, i beni comuni, ... ).

Ma questo tema lo affronteremo nella seconda puntata del post.

Un cordiale saluto.
Emilio L.

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